Un anno di guerra in Ucraina. Come sta cambiando la nostra cultura.

di Carlo Paolicelli - Presidente della Dante di Varsavia 

- (Varsavia) Ad un anno dall’inizio delle operazioni belliche a larga scala della
Federazione Russa in Ucraina ci ritroviamo a fare i conti con una nuova realtà
non solo geopolitica ma soprattutto culturale, che ci ha cambiati in ognuno di
questi 365 giorni passati all’insegna del primo conflitto armato propriamente europeo,
dopo la seconda guerra mondiale.



In questi anni, memori della fragilità della pace, i popoli europei hanno
cercato di educarsi a ripudiare la guerra portando le proprie ambizioni di
supremazia sul campo economico, spietato come quello di una guerra armata ma
più raffinato perchè fatto per mezzo di strumenti sofisticati in un’arena
globale i cui limiti erano posti solo da quelle regole, avvolte ritardatarie,
derivate il più dalle esperienze accumulate sul campo.



Il vantaggio in queste “guerre” era insito nell’efficacia delle operazioni
spersonalizzate e nella capacità di aggirare le barriere a tutela degli
incontrollati impatti, che esse avrebbero potuto avere sull’umanità. Nacquero
così negli anni ’50 del XX secolo i concetti di “comunità locale” ed in tempi a
noi più vicini, all’inizio del XXI secolo quello di “responsabilità sociale”
che mutuava i concetti storici di solidarietà e dignità dell’uomo per la
costruzione di un ecosistema sostenibile.



Così per oltre 75 anni abbiamo imparato le regole di una convivenza non
sempre agevole ma indubbiamente pacifica, nella quale più che quella bellica
contava la capacità di ricerca e sviluppo, più che fare la corsa agli armamenti
il ben posizionarsi sulla linea di partenza di una maratona per la
competitività e l’espansione.



Così abbiamo riempito di contenuti la nostra comunicazione, raccontandoci
l’uomo nelle sue introspezioni alla continua ricerca della propria valorizzazione nella
comunità degli individui, costruendo la cultura di una difficile accettazione
reciproca che chiamavamo “diritto”. L’esasperazione della centralizzazione dell’Uomo,
staccato dalle radici della sua pluridimensionalità, ha portato nel nuovo
millennio all’esaltazione dei particolarismi con l’effetto di acuire un
confronto culturale aspro e autoritativo basato su “diritti non condivisi”. L’umanità
è stata facile vittima della radicalizzazione delle differenze, anzicchè del
continuo arricchimento grazie alle diversità.



Abbiamo abbandonato la cultura della condivisione, del compromesso, sempre
difficile e frutto di faticose procedure, scegliendo la cultura della manipolazione,
una deformazione della comunicazione basata sull’imbonimento della maggioranza
delle masse. Non rincorriamo più la nostra fame di sviluppo e di vita, interrogandoci
sul destino dell’uomo. Abbiamo rinunciato al sapore genuino della vita, a far
parlare il vero e il bello come categorie costitutive della nostra civiltà. Dal
conflitto delle civiltà e delle culture è nata solo la propaganda come
categoria per giustificare quello che è più comodo. L’abbiamo chiamato
autoderminazione, nazionalismo o più semplicemente sovranismo. Ci siamo presi
la licenza delle strette vedute. Ci siamo sbarazzati di Tolstoj e Dostoevskij
quasi volessimo imputarli di collaborazionismo con Putin, abbiamo deformato la
scomoda eredità di papi e filosofi per non farci invasare la testa con la
parola “pace”, ci siamo creati culture alternative basate su dominanti
unidirezionali. Abbiamo rotto anche i semplici nessi di relazione “Io, Tu”, “Noi,
Voi”, li abbiamo fatti diventare alternativi e disgiunti, concorrenziali,
avversi.



La guerra in Ucraina, quando finirà non ci troverà più gli stessi,
disiorientati sulla frontiera del “Noi” e del “Voi”. Ci troverà molto più
poveri sia di mezzi che di spirito. Ci troverà molto più tribali, molto meno in
grado di scendere nel profondo per fare le proprie scelte in maniera
responsabile, autonoma e consapevole. Ci farà trovare meno uomini, sempre più
numeri di un’insieme amorfo, torturati dalle paure e dalla povertà materiale
come quella morale.



Questa per fortuna, ma senza straordinarietà, non è una guerra santa, da venerare come quella del bene contro il male o viceversa. È la
guerra delle incapacità. Dove i popoli tollerano di essere governati da politici disorientati, incapaci di indirizzarsi al compromesso e alla pace. Ben
descrisse il Sommo Poeta le sorti di terre confinanti avvinghiate nelle guerre civili,
aventi alla base interessi contrapposti. Nel canto quattordicesimo del
Purgatorio, esplorando la cornice degli invidiosi, Dante descrisse il corso dell’Arno,
il quale per tutta la durata del suo tragitto dalla sorgente alla foce lambiva
territori i cui abitanti si erano trasformati in bestie sanguinarie. Il Dante
storico fu un protagonista della storia di quelle terre, a lui possiamo dar
credito.



L’Arno dantesco scorreva dapprima tra sudici porci (i Casentinesi) più
degni di mangiare ghiande che cibo umano, poi trova dei botoli (gli Aretini)
ringhiosi. Nel suo basso corso, dove la valle è più ampia, l’Arno trova una
fossa dove i cani si erano trasformati in lupi (i Fiorentini), e infine scendendo
in bacini profondi incontrava le volpi dedite alla frode (i Pisani), che non
temevano astuzia alcuna. All’immagine della terra dell’Arno possiamo
sovrapporre quella dell’attuale Europa Centro-Orientale, mettendo al posto
delle figure dantesche dei porci, botoli, lupi e volpi, quelle degli attuali
protagonisti dello spargimento di sangue, ciascuno al suo posto. Dante ancor
oggi ci aiuta a sfatare i miti della guerra giusta secondo la legge naturale
dell’uniquique suum (lat. «a ciascuno il suo») ispirato a passi di Cicerone «Iustitia
... suum cuique distribuit», De natura deorum III, 15.



Salvatore Quasimodo ne “La muraglia”, rivolgendosi alla sua donna amata, scrisse:
« O cara, quanto / tempo è sceso con le foglie dei pioppi, / quanto sangue nei
fiumi della terra».



E questa riflessione, che ci porta indietro ai duri anni della Seconda
Guerra Mondiale è l’unica, che può ben sintetizzare un anno di una guerra che
non accenna a finire.

Carlo Paolicelli

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